di Irene Palazzini (3C)

L’8 marzo è la festa della donna. Ma è veramente così in tutto il mondo? Molte donne nel mondo soffrono ancora per tante discriminazioni e troppe sono ancora le vittime di violenza; la situazione è grave soprattutto in paesi poveri come l’Africa. In quasi tutti i paesi africani le donne sono vittime di abusi sessuali e di violenza in generale, sia in ambiente domestico sia nella società. La vita di una donna in Africa è difficile già da piccola, poiché circa tre milioni di bambine vengono sottoposte alla pratica dell’infibulazione, una mutilazione genitale che rappresenterebbe il rito di passaggio all’età adulta, ma che può avere gravi complicazioni, tra cui infezioni, dolore cronico, emorragie e, nei casi peggiori, la morte.

Le bambine sono costrette a sposarsi presto, in cambio di soldi o perché la loro famiglia non può mantenerle. Spesso le donne non hanno il diritto di lavorare, e quando viene loro concesso si tratta di lavori sottopagati, degradanti e senza diritti. L’istruzione è un altro campo in cui si notano le disuguaglianze in maniera anche più accentuata. Essere donne in Africa può essere molto faticoso. Lo sanno bene tante donne: Pamela, costretta a sposarsi a 13 anni in Kenya con un uomo molto più grande di lei. Subì mutilazioni e le complicazioni durante il parto furono tremende, tanto che oggi lei non vuole più avere figli. Everlyne, a 14 anni costretta a lasciare la scuola perché i suoi genitori non avevano soldi per pagare gli studi. Almaz, 32 anni, vive in Etiopia, ha 7 figli e lavora da sempre come contadina, perché solo gli uomini hanno il diritto di lavorare fuori dalle proprie abitazioni.

Il protocollo Maputo, entrato in vigore nel novembre 2005 per salvaguardare e promuovere i diritti delle donne, rappresenta un passo avanti ma non il punto di arrivo per i diritti delle donne in Africa. Il progresso è stato lieve e lento. Lo scoppio della pandemia ha accentuato una situazione già molto difficile, che rischia di avere esiti drammatici. È stato registrato in diversi paesi africani un aumento dei casi di violenza sessuale e domestica, di mutilazioni genitali, di matrimoni precoci, di gravidanze pre-adolescenziali o adolescenziali, di morti materne di parto e un drammatico decremento di nascite assistite. Gli Stati non sono in grado di proteggere le donne dai problemi socio-economici che emergono durante crisi del genere.

Anche gli appartenenti alle comunità LGBT (lesbiche, gay, bisessuali e transgender) non hanno vita facile in oltre metà dei paesi africani. Tra questi alcuni non solo vedono e reprimono rapporti tra lo stesso sesso, ma è in vigore persino la pena di morte per i trasgressori. Tutti ricordano l’uccisione di Eudy Simelane il 28 aprile del 2018, ex stella della nazionale sudafricana stuprata e trucidata con 25 coltellate al volto, al petto e alle gambe, perché lesbica. Fu una delle prime donne sudafricane a dichiarare la propria omosessualità e a viverla apertamente in una società fortemente maschilista e omofoba. Tre degli imputati furono dichiarati colpevoli e condannati all’ergastolo, ma la strada è ancora lunga da percorrere; lo stesso giudice dichiarò “di essere preda dei pregiudizi” che ancora avvelenavano una fetta consistente della società sudafricana.

Ancora oggi gay e lesbiche sono discriminati in Africa: a una coppia di lesbiche in Sudafrica è stato negato di sposarsi in un luogo da loro scelto “perché erano una coppia dello stesso sesso”. Di 72 paesi in tutto il mondo che criminalizzano l’omosessualità, più di 30 si trovano in Africa. Nelle famiglie stesse avvengono molti attacchi: casi di stupri definiti come azioni correttive su ragazze lesbiche da parte di zii e fratelli, abusi verbali quotidiani, violenze domestiche psicologiche e omicidi da parte di membri della famiglia. L’omosessualità è vista come un’onta. A livello di legislazioni statali qualcosa si sta muovendo, ma l’omofobia è ancora molto diffusa e le persone LGBT continuano a morire e soffrire nel silenzio e nell’invisibilità. Addirittura oggi ai tempi del coronavirus i gay vengono accusati di essere untori.

Risale al marzo dello scorso anno l’arresto in Uganda di 20 persone appartenenti al mondo LGBT. 14 uomini gay, 2 bisessuali e 4 transgender sono stati arrestati in un appartamento perché “hanno disobbedito alle leggi che impongono il distanziamento sociale”. Secondo il portavoce della polizia non ci sarebbero ragioni legate all’orientamento sessuale nei motivi che hanno condotto all’irruzione. Si sono levate le proteste del mondo LGBT ugandese secondo cui gli arresti sono un caso di discriminazione, visto che il blitz è avvenuto dopo che i vicini avevano denunciato la presenza di persone omosessuali. L’emergenza coronavirus sarebbe quindi stata usata per gettare odio sulla comunità omosessuale, e c’è chi ha incolpato i gay, transgender e bisessuali di essere addirittura la causa del contagio. Sono accuse molto gravi che in questo momento difficile contribuiscono ad una “caccia all’untore” che, come nella Milano del Manzoni, sembra e sembrava essere l’unica soluzione all’epidemia.

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