di Claudio De Stefani, Leonardo Bini e Andrea Pernici (3B)

PAOLO BORSELLINO: UN UOMO CHE HA DEDICATO LA SUA VITA AL LAVORO

Paolo Emanuele Borsellino è nato il 19 gennaio 1940 a Palermo. Visse nel quartiere Kalsa, dove suo padre aveva aperto una farmacia al piano terra, mentre al secondo piano abitava Paolo con il fratello Salvatore, le sorelle Adele e Rita. Lì da bambino conobbe l’amico Giovanni Falcone, ammazzato il 23 maggio 1992 sempre per mano della criminalità organizzata.

Dopo aver frequentato le scuole dell’obbligo si iscrisse al liceo classico “Giovanni Meli” di Palermo. Durante quegli anni diventò direttore del giornale studentesco “Agorà”. A 22 anni si laureò in Legge con il massimo dei voti presso l’università di Palermo nel 1962, poi partecipò nel 1963 al concorso di accesso alla magistratura, diventando il più giovane magistrato italiano. Presto la sua vita si trasformò. Dopo essersi sposato con Agnese, ebbe tre figli: Lucia, la più grande, Manfredi che oggi è un poliziotto e Fiammetta. A cambiare l’esistenza sua e della famiglia fu l’uccisione del capitano dei Carabinieri Emanuele Basile con il quale il magistrato stava svolgendo delle indagini.

Da quel giorno, il 3 maggio del 1980, anche a Paolo Borsellino venne affidata la scorta. Da subito, insieme al suo grande amico Giovanni Falcone, combatté la mafia. È da questo momento che i due magistrati svolsero le indagini che hanno portato al maxiprocesso, il processo più grande della storia della mafia che ha condannato 346 mafiosi e istituì il 41-bis, ovvero il carcere duro per i mafiosi. Per la prima volta la mafia perdeva la battaglia. Insieme diedero la caccia a uno dei boss più pericolosi di Palermo, Totò Riina, capo di Cosa Nostra.

Nel 1991 la mafia decise di uccidere il giudice Borsellino. A dover compiere l’attentato con un fucile di precisione era Vincenzo Calcara, mafioso di Castelvetrano. Fortunatamente Calcara fu arrestato prima della presunta data dell’esecuzione. Per Borsellino, quell’uomo diventò molto di più di un collaboratore di giustizia.

Una volta rivelatogli il piano e l’incarico, il boss disse: «Lei deve sapere che io ero ben felice di ammazzarla». Dopo tutto ciò, raccontò sempre il pentito, gli chiese di poterlo abbracciare e Borsellino avrebbe commentato: «Nella mia vita tutto potevo immaginare, tranne che un uomo d’onore mi abbracciasse».

Ma il 19 luglio 1992, dopo due mesi dalla strage di Capaci, accadde quello che anche lui s’aspettava. È domenica. Paolo Borsellino quella mattina alle cinque riceve una chiamata: è la figlia Fiammetta dalla Thailandia. Alle sette riceve un’altra telefonata che sveglia anche l’altra figlia. Poi decide di andare al mare. Paolo pranza a casa di vecchi amici di famiglia e parlando si confida senza farsi sentire da Agnese: «È arrivato il tritolo per me».

Alle 16:30 parte e va dalla mamma. Mette nella sua borsa di pelle le carte, il pacchetto di sigarette, il costume e l’agenda rossa. Eccolo in via D’Amelio dove andava sempre a trovare la mamma e la sorella Rita.
La Fiat Croma attraversa la strada tra le auto parcheggiate a spina di pesce. C’è anche una fila al centro. Arrivati in fondo, dal momento che la via è chiusa, le auto fanno un’inversione. Percorrono qualche metro e arrivano esattamente dove oggi c’è un albero d’ulivo che la mamma di Paolo ha voluto al posto del cratere.

Quando il giudice suona al citofono sono le 16:58 e venti secondi. È l’inferno.

La Fiat 126 rossa parcheggiata da due giorni davanti alla ringhiera, imbottita di 90 chilogrammi di tritolo e pentrite, scoppia. Paolo, Emanuela Loi, Walter Cosina, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli e Agostino Catalano, il capo scorta, muoiono.

In pochi minuti arrivano ambulanze, vigili del fuoco, forze dell’ordine. Regna la confusione; la polvere rende tutto più grigio, più opaco, al punto che qualcuno, ancora non sappiamo chi, prende quell’agenda rossa dove Paolo era solito appuntare riflessioni sui suoi colloqui investigativi e la fa sparire.

Il 24 luglio circa 10.000 persone parteciparono ai funerali privati di Borsellino (i familiari rifiutarono il rito di Stato: la moglie Agnese, infatti, accusava il governo di non aver saputo proteggere il marito e volle una cerimonia privata senza la presenza dei politici), celebrati nella chiesa di Santa Maria Luisa di Marillac, disadorna e periferica, dove il giudice era solito sentir messa, quando poteva, nelle domeniche di festa. L’orazione funebre fu pronunciata da Antonino Caponnetto, il vecchio giudice che aveva diretto l’ufficio di Falcone e Borsellino: «Caro Paolo, la lotta che hai sostenuto dovrà diventare e diventerà la lotta di ciascuno di noi».

Di seguito vi proponiamo il link per visionare il film relativo alla Strage di via D’Amelio.

La mafia uccide solo d’estate – Film – RaiPlay

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