di Martina Persia (3C)

Negli anni ’20 la Francia era il centro mondiale della raffinatezza e dello chic. Contemporaneamente, il crollo della borsa di Wall Street del ’29 aveva causato un’ondata di crisi, licenziamenti e riduzioni di salari. Nonostante ciò, in Italia la classe agiata si vestiva in modo raffinato. I matrimoni erano eleganti, in particolare quello di Umberto II e Maria Josè del Belgio del 1930, così come i ricevimenti, dove si ignoravano i problemi del resto della nazione.
Mussolini, poiché veniva da una povera famiglia romagnola, non amava tutto ciò e aveva ben chiaro il suo ideale femminile: gli piacevano le contadine di corporatura robusta e finché poté cercò di trasformare le signore italiane in massaie rurali.

Attraverso Il giornale della donna, Camerate a noi e Il Popolo d’Italia, il Duce cercava di introdurre nelle donne il rifiuto dello stile parigino e la disciplina. Lo sport femminile fu incentivato e si lanciarono le “Olimpiadi della grazia”, che si svolsero a Firenze con la partecipazione di undici nazioni europee. Nel 1935 fu fondato l’Ente nazionale della Moda, a Torino, che segnò l’inizio di una nuova moda nazionalista. Era il periodo dell’autarchia.

La causa principale dell’autarchia furono le sanzioni economiche imposte all’Italia dalla Società delle nazioni per l’invasione dell’Etiopia. Quindi mancarono le materie prime e si lanciò una campagna che diceva al popolo di rifiutare tutto quello che proveniva dall’estero, e si modificò persino la lingua invitando le persone a imparare il latino invece che il francese e l’inglese. La moda inventava creazioni esclusivamente “italianissime”. Il primo articolo dell’Ente obbligava a certificare la garanzia italiana di ogni creazione. Negli anni ’30 Parigi aveva lanciato una nuova moda, la gonna al polpaccio. Coco Chanel, Madeleine Vionnet e l’italiana Elsa Schiapparelli erano al centro dell’attenzione internazionale. Erano di moda i vestiti stampati a fiori, il plissè, le arricciature, i merletti e ricami. I guanti erano d’obbligo come i cappelli, e solo le donne del popolo uscivano a testa scoperta. Gli abiti si rivolgevano a una donna moderna ed emancipata. Per il mare il corpo era molto scoperto e si cominciano a indossare i primi pantaloni, copiando lo stile di Marlene Dietrich e Greta Garbo.

Il fascismo si occupava invece di demografia ed era convinto di riportare le donne tra le mura domestiche. Si lanciarono violente campagne contro i pantaloni e contro il trucco perché impiastricciava il volto. Ma le signore continuavano comunque la dieta e a seguire i modelli parigini. Fu obbligatorio risparmiare sui tessuti e furono aboliti gli abiti da sposa, ma i giornali sembravano ignorare il problema. L’economia di guerra lanciò alcune mode come i cappellini con le velette e le scarpe con le zeppe. La crisi e il divieto dell’uso del cuoio e dell’acciaio spinsero così Salvatore Ferragamo ad abolire il tacco e ed inventare la zeppa in sughero sardo. La zeppa poteva avere anche il tacco rientrante. Ferragamo si era trasferito ad Hollywood diventando “il calzolaio delle stelle”. Insoddisfatto della manodopera americana, fece ritorno a Firenze. Infine negli anni ’40, con i bombardamenti e la gente sfollata in campagna, le donne incominciarono a farsi scarpe con la carta.

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